Stampa questa pagina
Lunedì, 13 Settembre 2021 17:54

Brigantesse. Donne coraggiose, temerarie, passionarie e appassionate

Scritto da Nicoletta Camilla Travaglini

di Nicoletta Camilla Travaglini

Nell’ottocento le donne erano “le regine del focolare domestico”, le signore dell’alta società erano considerate, invece, alla stregua di merce di scambio per combinare vantaggiose alleanze.

Le aristocratiche avevano come vezzo quello di svenire, le popolane, invece, abituate al duro lavoro dei campi, non disdegnavano grandi sacrifici. Non desta meraviglia, quindi, che il gentil sesso abbia avuto un ruolo attivo durante il brigantaggio, condividendo con i loro colleghi maschi pericoli, rocambolesche fughe, oltre che ai lavori forzati, per sottacere le torture e i plotoni d’esecuzioni.

Queste donne non erano solo e semplici “mantenungole”, cioè collaborazioniste, “drude” o “ganze”, termine denigratorio per indicare fidanzate, amanti, compagne o mogli dei briganti, molte di esse, invece, erano vere e proprie brigantesse, molto più spietate e determinate degli uomini rappresentando gli effettivi boss.

Molte di esse furono incriminate come autrici di efferati delitti, per fortuna, furono poche quelle che finirono giustiziate, poiché l’autorità giudiziaria le condannava, di regola, a 15 anni di lavori forzati o ergastoli, a differenza dei loro colleghi maschi che furono quasi tutti torturati e giustiziati.

Vestivano come uomini, maneggiavano le pistole, fucili coltelli e qualsiasi altro strumenti di offesa, come degli esperti uomini d’arme, nascondevano le loro lunghe capigliature sotto il cappello all’aspramente, cioè a larghe falde, e alcune di loro riuscivano anche a dissimulare gravidanze calcolate, così da usufruire i benefici della legge; era difficile, quindi, per i soldati riconoscerle se non all’atto dell’arresto. Molte donne furono seviziate dagli allora tutori dell’ordine e questo fu, forse, causa di suicidio di molti militari di leva, che dovettero assistere, tra le tante crudeltà, anche a efferatezze del genere.

Queste brigantesse erano molto appassionate, cioè amavano i loro uomini fino a lasciare il consorzio civile e “darsi alla macchia”; ma pretendevano di essere ricambiate alla stessa maniera e una volta tradite, esse non esitavano a denunciarli o ucciderli con le proprie mani.

Una di queste figlie d'Eva dell’Italia preunitaria, si legò a un brigante, diventando brigantessa a sua volta. Quest’uomo violento, al disgregarsi della sua banda, andò a vivere con la sua compagna, suo figlio piccolo e due cani feroci, in uno dei tanti anfratti tra la Calabria e la Basilicata; l’uomo odiava suo figlio e quando una sera, braccati dalla forza pubblica, il bambino iniziò a piangere, l’uomo lo scaraventò contro una roccia appuntita e fracassandoli la testolina.

La donna, chiusasi in un mutismo pieno di odio, seppellì il bambino, ma quando il bruto si addormentò gli sparò un colpo di pistola in mezzo alla fronte; dopodiché, tagliatagli la testa, la portò al primo posto di polizia riscuotendo la taglia che pendeva sul capo del suo compagno. Questo fatto alquanto cruento ci dà la misura delle grandi passioni di cui esse erano capaci.

Un’altra di queste donne non esitò a trucidare la sorella quando seppe che aveva avuto una relazione con il suo uomo, e nonostante la famiglia la ripudiò, essa non si disse per nulla pentita dell’omicidio.

Queste “signore” erano per la maggior parte ex prostitute, ma non mancavano donne oneste o addirittura anche aristocratiche come contesse, duchesse, etc. affascinate da questi uomini “belli e dannati”.

Un caso emblematico è quello della duchessa Anna Durante, figlia di un inflessibile magistrato ucciso crudelmente dai briganti. Il duca Giovanni Durante era un magistrato molto severo, poiché aveva fatto impiccare molti briganti ed era un alto funzionario della procura pugliese. Era considerato un vero nemico di questi fuorilegge, così i fratelli Vardarelli, Gaetano, soprannominato anche il “Gran Vardarello”, Giovanni, Geremia e la sorella Anna Antonia Meomartino, che erano molto temuti anche nella zona dell’alto vastese, un pomeriggio mentre l’anziano magistrato riposava, lo presero ed impiccarono a un grosso albero del suo giardino. Poco dopo si udirono dei colpi di fucile dall’interno della casa e il Gran Vardarello, entrato di soppiatto, catturò Anna Durante, mentre cercava di ricaricare il fucile.

La leggenda vuole che questa si innamorasse perdutamente del suo aguzzino e, rinnegata dall’aristocrazia dell’epoca su di lei e sul suo grande amore scese l’oblio. Sarebbe scontato pensare che questi fuorilegge fossero così efferati, in vero, anche i tutori dell’ordine non erano così benevoli nei confronti di queste persone “al limite”. Secondo testimonianze dell’epoca, molti uomini e donne furono accusati ingiustamente di crimini non commessi e si videro confiscare i loro pochi beni da burocrati e funzionari corrotti, i quali, per un semplice sospetto, potevano incriminare onesti cittadini, i quali si davano alla macchia per potersi salvare.

In quei tempi così turbolenti si era diffuso un clima da “caccia alle streghe” e un semplice pettegolezzo diffuso da persone maligne o interessate, poteva diventare, in sede di tribunale, una condanna a morte con conseguente rovina finanziaria di tutto il parentato. Un caso rappresentativo potrebbe essere quello di Maria Suriani la quale fu probabilmente accusata ingiustamente di mantenungolismo.

Nel maggio del 1866 la banda Cannone ebbe uno scontro a fuoco con i militari nelle campagne di Atessa, vistosi a mal partito il brigante Domenico Valerio, detto Cannone, si disfece di diversi oggetti, tra cui una tunica decorata, nel cui interno vi erano dei fazzoletti ricamati e delle lettere d’amore indirizzate a lui personalmente. Queste lettere portavano la firma di Maria Suriani, una bella ventenne bionda, nata ad Atessa nel 1846 essa ebbe una storia d’amore con il brigante Capitano Cannone ma il suo idillio si interruppe bruscamente nel 1863. Maria Suriani di Pasquale, era una contadina benestante, e aveva un reddito di circa “Mille Lire” di quel tempo; essa viveva con i suoi genitori anche essi contadini.

Questo “status sociale” attirò la rivalità di alcuni parenti e vicini, che rosi dall'invidia non esitarono a denunziare questa ragazza, forse, innocente. Una sera come tante altre Cannone e il suo luogotenente Policarpo Romagnoli andarono a fare visita ai vicini e parenti dei Suriani, i Tano, passarono alcune ore e Domenico Valerio e il suo vice entrarono come due furie nella casa di Maria e avvicinatisi a Pasquale gli diedero un sonoro ceffone, minacciandolo di morte se egli avesse fatto la spia presso le autorità. Probabilmente i vicini avevano accusato i Suriani di essere degli informatori al soldo dei “Militi”. Intanto si fece giorno e Pasquale andò, a denunziare questa intimidazione, il sindaco lo rassicurò dicendogli che avrebbe mandato qualcuno per verificare l’effettiva presenza dei briganti in zona. Il contadino uscì trafelato dal Comune e riprese la strada verso casa; ma a casa lo attendeva una dolorosa sorpresa: Domenico e Policarpo lo stavano aspettando e dopo avergli mostrato una lettera del sindaco, nella quale si diceva che il suddetto Pasquale li aveva denunziati per minacce, i due bruti riempirono di botte il malcapitato e appena terminato la loro opera i due andarono alla masseria dei Tano.

Passarono alcune ore e sopraggiunsero anche i gendarmi, i quali non vedendo alcun brigante da quelle parti, picchiarono di nuovo il povero contadino per collaborazionismo con i briganti. La figlia, allora raccolse il tumefatto padre e lo mise a letto dove restò per sei mesi, sospeso tra la vita e la morte. Passarono alcuni mesi e Maria fu arrestata con l’accusa di essere la “druda” di Cannone e mandata a scontare le sue colpe in Sardegna; ma dopo nove mesi di custodia cautelare, essa fu ospite delle carceri di Chieti, dove revisionata la causa, fu prosciolta per mancanza di prove, visto che nessuno volle testimoniare contro di lei. Nel 1866 le lettere trovate nella tunica del Valerio rappresentavano quasi una confessione, peccato però che Maria fosse del tutto analfabeta.

La legge voleva, comunque trovare in lei un capro espiatori e così il giudice Raffale Finamore pensò bene di far perquisire la casa dello zio di Maria, Fra Camillo, per trovarvi qualche traccia di quelle lettere, dato che in casa di Maria non si era trovato nulla di compromettente; ma anche così non si arrivò a nessuna prova concreta e schiacciante. Maria, comunque, fu condannata ai lavori forzati, ma dopo cinque mesi, con la revisione del processo voluta da Maria stessa essa fu prosciolta per mancanza di prove.

A questo punto è legittimo dubitare se Maria fosse davvero l’autrice di quelle lettere; se non le ha scritte lei chi fu l’autore di questo macabro scherzo, infine perché Valerio si disfece solo della tunica e dei fazzoletti che recavano la firma di Maria.”

Articoli correlati (da tag)